Absalon Amet

Da La sinagoga degli iconoclasti di J. Rodolfo Wilcock

«Verrà presto un giorno infatti, se non è già venuto, in cui tutte le proposizioni del Filosofo Meccanico Universale, e ben altre combinazioni di vocaboli ancora, saranno state accolte col dovuto rispetto nel seno generoso della Storia del Pensiero Occidentale.»

Absalon Amet

Da La sinagoga degli iconoclasti, J. Rodolfo Wilcock


Absalon Amet, orologiaio alla Rochelle, può dirsi in un certo senso il precursore occulto di una parte non trascurabile di ciò che poi si sarebbe chiamato la filosofia moderna – forse di tutta la filosofia moderna – e più precisamente di quel vasto settore di indagine a scopo voluttuario o decorativo consistente nel casuale accostamento di vocaboli che nell’uso corrente raramente vanno accostati, con susseguente deduzione del senso o dei sensi che eventualmente si possano ricavare dall’insieme; per esempio: «La Storia è il moto del nulla verso il tempo», oppure «del tempo verso il nulla»; «Il flauto è dialettico», e combinazioni simili. Uomo del Settecento, uomo di ingegno, Amet non pretese mai né la satira né la conoscenza; uomo di meccanismi, altro non volle mostrare che un meccanismo. Nel quale si celava minaccioso – ma lui non lo sapeva – un brulicante avvenire di turpi professori di semiotica, di brillanti poeti di avanguardia.

Amet aveva inventato e fabbricato un Filosofo Universale che all’inizio occupava la metà di un tavolo ma alla fine occupava un’intera stanza. Essenzialmente, l’apparecchio consisteva di un insieme abbastanza semplice di ruote dentate caricate a molla e regolate nel loro movimento da uno speciale congegno a scatto che periodicamente fermava l’ingranaggio. Cinque (nella versione iniziale) di queste ruote, di diametro diverso, erano coassiali con altrettanti cilindri grossi e piccoli, interamente ricoperti di targhette su ciascuna delle quali era scritto un vocabolo. Queste targhette passavano a turno davanti a uno schermo di legno provvisto di finestrini rettangolari in modo che a ogni scatto, guardando dall’altra parte dello schermo, si poteva leggere una frase, sempre casuale ma non sempre priva di senso. Marie Plaisance Amet, unica figlia dell’orologiaio, leggeva queste frasi e trascriveva quelle più curiose o apodittiche in un suo grosso quaderno da contabile.

I vocaboli del primo cilindro erano tutti sostantivi, ognuno dei quali preceduto dal corrispondente articolo. Sul secondo cilindro erano i verbi. Sul terzo le preposizioni, proprie e improprie. Sul quarto erano scritti gli aggettivi e sul quinto di nuovo i sostantivi, diversi però da quelli di prima.
I cilindri si potevano far salire o scendere a volontà, il che permetteva una varietà quasi infinita di combinazioni. Tuttavia, questa prima forma del Filosofo Universale, à six mots, era fin troppo palesemente rudimentale, dal momento che solo poteva fornire pensieri del tipo: «La vita-gira-verso-uguale-punto», «La donna-sceglie-sotto-basse-spinte», «L’universo-nasce-da-molta-passione», o altri più frivoli ancora.

Per un meccanico provetto come Amet, congegnare un Filosofo più evoluto, in grado cioè di produrre giri sintattici più arditi e sentenze più memorabili, era solo questione di pazienza e di tempo, due qualità che la sparuta comunità protestante della Rochelle non negava certo ai suoi membri. Aggiunse avverbi di ogni sorta: di modo, luogo, tempo, quantità, qualità; aggiunse congiunzioni, negazioni, verbi sostantivati e cento raffinatezze simili. Man mano che l’orologiaio inseriva ruote, cilindri e finestrelle allo schermo di lettura, il Filosofo aumentava di volume, e anche di superficie.

Il rumore degli ingranaggi evocava alla giovane Plaisance il rombo interno di un cervello affaccendato, mentre alla luce di una, di due e infine di tre candele, ogni scatto le offriva un pensiero, ogni combinazione un motivo di riflessione, nelle lunghe sere di autunno di fronte all’oceano grigio.
Non che annotasse nel suo quaderno frasi del tipo: «Il gatto è indispensabile al progresso della religione», oppure «Domani sposarsi non vale un uovo subito»; ma quante volte ignara registrò la sua penna concetti allora oscuri e che un secolo, due secoli dopo sarebbero stati detti luminosi. Nella raccolta pubblicata a Nantes nel 1774, a nome di Absalon e di Plaisance Amet col titolo Pensées et Mots Choisis du Philosophe Mécanique Universel, troviamo per esempio una frase di Lautréamont: «I pesci che nutri non si giurano fraternità», un’altra di Rimbaud: «La musica sapiente manca al nostro desiderio», una di Laforgue: «Il sole depone la stola papale». Quale senso dell’irrealtà futura indusse la giovane – o suo padre per lei – a scegliere tra migliaia di frasi insensate queste che un giorno avrebbero meritato l’antologia?

Ma più notevoli forse sono quelle di carattere prettamente filosofico, nel senso più largo della parola. Sorprende leggere in un libro del 1774: «Tutto il reale è razionale»; «Il bollito è la vita, l’arrosto è la morte»; «L’inferno sono gli altri»; «L’arte è sentimento»; «L’essere è divenire per la morte»; e tante altre combinazioni del genere oggi diventate più o meno illustri.

Non sorprende invece sapere che le sole tre copie superstiti del libro degli Amet si trovano adesso, tutt’e tre, nella piccola e disordinata biblioteca comunale di Pornic, Loira Inferiore. Per reperirle forse è tardi ormai: verrà presto un giorno infatti, se non è già venuto, in cui tutte le proposizioni del Filosofo Meccanico Universale, e ben altre combinazioni di vocaboli ancora, saranno state accolte col dovuto rispetto nel seno generoso della Storia del Pensiero Occidentale.