Angelus Vetus

Cartoline da Weimar e dintorni

«È come se solo presso i morti si potesse trovare giustizia dai vivi. Perché ciò che questi fanno è assolutamente intollerabile» (Es ist mir, als wäre nur bei den Toten Gerechtigkeit zu finden gegen die Lebenden. Denn was diese tun, ist ganz und gar unerträglich). Ancora risuona – e al contempo agghiaccia chi appena ricordi come di lì a poco evolsero le cose – l’inascoltato grido di dolore di Jakob Wassermann ne Il mio cammino di tedesco ed ebreo (Mein Weg als Deutscher und Jude, S. Fischer Verlag, Berlino 1921).

Troppo facile, col senno di poi, leggere nel disagio del Wassermann, nella constatazione della sua impossibilità, in quanto ebreo, di essere riconosciuto anche compiutamente tedesco, la premonizione di come quell’infezione antisemita da sempre latente ma mai assurta allo stato di morbo conclamato (e dipperciò mai guarita) stesse via via minando – fino alle estreme conseguenze – la già gracile, ormai quasi estenuata complessione del weimarismo.

Troppo facile, quando anche menti sopraffine come quella dell’amico Thomas Mann, non più impoliticorivoluzionario conservatore, non seppero allora vedervi che ubbie di un letterato di successo, sintomi di «ipocondria letteraria», quando non già di semplice atavico Selbsthass ebraico.

È certo brutale forzatura, nel constatare il mancato ascolto prestato alla voce del Wassermann, volervi leggere gli stessi vizî del moderno “terzismo” italico, quel per me altrimenti difficilmente definibile atteggiamento di chi, pur non potendo condividere, sempre minimizza e accetta di sostenere, quando già non se n’illude – nel timore di apparire catastrofista, di essere scambiato per uno che “rema contro” – che possa esister un tasso fisiologico, tollerabile di barbarie e, così facendo, via via vi si abitua. Quell’atteggiamento che, estendendo, tutti noi teniamo quando, pur avendole davanti, restiamo timorosi di ammettere – ché troppo brutta ci pare – la vera natura delle cose. Brutale forzatura, certo. Perché nessuno ormai, pur se non corrivo, da quest’atteggiamento può dirsi fino in fondo immune.

È solo così che possiamo capire il perché quella voce sia potuta cadere nel vuoto, provando a pensare a quante volte – negli ultimi anni – ci sia parso che si fosse toccato il fondo, oltre il quale non ci si sarebbe più potuti spingere. Che inevitabilmente – prima o poi – di lì non si sarebbe potuto che risalire. E quante volte ci siamo invece ritrovati a considerare che quell’allora quasi intollerabile stato di cose era – tutto sommato – nemmeno disprezzabile, quasi da rimpiangere.

Perché «almeno allora» ci si sarebbe, se non altro, vergognati un po’ di più.

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Sento l’Angelus Novus di Klee che apre questo post implorarmi d’essere accompagnato – assai più degnamente che non dalle povere mie – da queste righe di Walter Benjamin, scritte ormai nel pieno della bufera.

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Walter Benjamin, estratto da
Über den Begriff der Geschichte (1940)

Mein Flügel ist zum Schwung bereit
ich kehrte gern zurück
denn blieb’ ich auch lebendige Zeit
ich hätte wenig Glück.

Gershom (Gerhard) Scholem, Gruß vom Angelus

Es gibt ein Bild von Klee, das Angelus Novus heißt. Ein Engel ist darauf dargestellt, der aussieht, als wäre er im Begriff, sich von etwas zu entfernen, worauf er starrt. Seine Augen sind aufgerissen, sein Mund steht offen und seine Flügel sind ausgespannt. Der Engel der Geschichte muß so aussehen. Er hat das Antlitz der Vergangenheit zugewendet. Wo eine Kette von Begebenheiten vor uns erscheint, da sieht er eine einzige Katastrophe, die unablässig Trümmer auf Trümmer häuft und sie ihm vor die Füße schleudert. Er möchte wohl verweilen, die Toten wecken und das Zerschlagene zusammenfügen. Aber ein Sturm weht vom Paradiese her, der sich in seinen Flügeln verfangen hat und so stark ist, daß der Engel sie nicht mehr schließen kann. Dieser Sturm treibt ihn unaufhaltsam in die Zukunft, der er den Rücken kehrt, während der Trümmerhaufen vor ihm zum Himmel wächst. Das, was wir den Fortschritt nennen, ist dieser Sturm.

La mia ala è pronta al volo,
ritorno volentieri indietro,
poiché restassi pur tempo vitale,
avrei poca fortuna.

Gershom (Gerhard) Scholem, Il saluto dell’angelo

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.