Charline Coninette

A volte riemergono…

Premessa: il racconto all’interno di questo post non è farina del mio sacco. Non intendo arrogarmi qualsivoglia diritto su di esso, e non esiterò a procedere alla sua rimozione, qualora l’autore volesse appalesarsi per farne richiesta.

È necessario giusto un breve cenno sulla provenienza della gustosa novella che vado a presentare, intitolata «Charline Coninette»: ha misteriosamente fatto la sua comparsa alcuni mesi orsono, iniziando a diffondersi sotto forma di fax, via via sempre meno clandestino, tra i membri di un Ordine professionale della città di ***. È apparso subito chiaro come l’anonimo autore, sulla falsariga delle novelle tardo ’800 di Jean Richepin raccolte in Les morts bizarres, crudele e divertito campionario di trapassi all’insegna del morimo strano, intendesse in realtà dileggiare ferocemente un personaggio della vita pubblica cittadina, ricalcandovi la figura di Charline. Con penna intinta nel curaro.

Non so resistere alla tentazione di pubblicare il prodotto di tanto malevolo ingegno, pur con le cautele del caso. Non chiedetemi infatti chi sia il personaggio preso di mira: non ho santi in Paradiso, né tantomeno mezzi e voglia di andare incontro a tignose querele. Chi deve intendere intenda, e (ri)assapori un po’ di sana perfidia. Chi non può capire di chi si parla si accontenti di una lettura ugualmente godibile, e mostri comprensione per un povero gambero. Suo malgrado reticente.

Buona lettura!

Antologia della novella francese

Charline Coninette

di Jean Richepin


«Guardi», disse il passeggero che da un po’ di tempo stava sbirciando fuori, dal finestrino della carrozza, rivolgendosi al suo compagno di viaggio che sobbalzò alla inaspettata interruzione dei suoi pensieri sonnacchiosi, «quella cittadina che si comincia a vedere in lontananza è *** ed io vi ho vissuto molti anni. Là viveva una donna così bizzarra e ridicola che ancora oggi mi viene da ridere ogni volta che la ricordo, anche se poi finì tragicamente. Posso raccontarle la sua vicenda?»

Il compagno, un anziano e distinto signore che aveva tutta l’aria di essere un professionista a riposo, lo incoraggiò con un sorriso ed un cenno del capo e l’altro, alquanto più giovane, iniziò senz’altro a narrare.

«Le case che vede» iniziò «appartengono ad una delle tante cittadine di provincia, tipiche dell’Alsazia, e là io fui destinato come giovane funzionario dello Stato, visto che capivo un po’ di tedesco. Come potete immaginare, dopo pochi mesi ero ben introdotto fra i notabili del posto, e non mi mancavano di certo gli inviti in quelle famiglie ove vi erano figlie da marito; facevano anzi a gara per raccontarmi tutti i pettegolezzi locali, convinti o speranzosi che presto sarei divenuto uno di loro.

È cosi che ho conosciuto i particolari sulla vita di una certa signora, che avevo avuto modo di incontrare nella mia vita pubblica, ma da cui un’istintiva repulsione fisica mi aveva tenuto lontano.

Ella appariva essere già oltre la cinquantina, ma il trascorrere del tempo poco aveva potuto influire sulla non peggiorabile bruttezza giovanile. Non ricordo il suo vero nome, ma tutti la chiamavano Charline Coninette; Charline perché era forse il suo vero nome e Coninette (1) per irridere i suoi atteggiamenti vezzosi e le vanitose pose da donna superiore, così poco ricollegabili al suo aspetto e alle sue doti.

Per quegli imperscrutabili misteri della Natura che portano ai più fantastici accoppiamenti, aveva trovato anche un marito, apparentemente normale e che si era guadagnato il soprannome di “Estomac de fer”.

Avendo un corpo nano, si rimpannucciava con indumenti di alta sartoria che riuscivano solo a farne risaltare l’aspetto rachitico e denutrito. Con essi si metteva in mostra a teatro e conferenze, ignara delle sghignazzate alle sue spalle e dei mormorii di compatimento di chi, invece di tornite spalle, vedeva solo stenchite scapolucce da gazza avvizzita.

L’illusione che abiti di sartoria potessero nascondere o sostituire ciò che le mancava, la spingeva a mettersi in pelliccia anche al mattino presto e viaggiava spedita sulla biciclettona poco adattata alle sue corte gambucce, rese ancor più corte da una curvatura impressionante; più che gambe erano due parentesi e, come dice il popolo, “ci sarebbe passato un cane in corsa”. Aveva un naso troppo grosso per la testa e una testa troppo grossa per il corpicciuolo, tanto che spesso la inclinava di lato come se le pesasse, in un atteggiamento un po’ scimmiesco: affig, come dicevano nel dialetto locale. Faceva pena pensare ad un cervello così piccolo In una testa così grossa.

Eppure si considerava una rara bellezza, degna di essere immortalata, con il suo nasone ben ritoccato, in foto artistiche la cui sola vista avrebbe dovuto convincere il mondo intero della sua beltà e delle sue doti femminili. Ma l’unico che pareva apprezzarle era il marito, avvinto per necessità matrimoniale allo sterile antro da cui nessun altro mai era stato tentato.

Si vociferava che in tempi di maggior eccitamento fisico la coppia, subito dopo pranzo, usasse eseguire prestazioni esibizionistiche sul tavolo, rapidamente sgomberato dai piatti sporchi, davanti alla finestra aperta, in modo che i dirimpettai potessero apprezzare la sua forza seduttrice di donna sull’uomo.

Come spesso accade nelle persone che cercano inconsciamente di compensare la loro irrimediabile e tragica inferiorità, ella si compensava ritenendosi dotata di doti superiori di bellezza, intelligenza ed efficienza; non perdeva occasione per presentarsi come primadonna prescelta per grandi destini. Ciò che ella decideva, anche la più grossa bestialità (e ne faceva tante) diveniva una verità indiscutibile; lo scarso lavoro che svolgeva era il più impegnativo; era convinta di essere maestra nel prendere rapide decisioni; e non si rendeva conto di non avere l’intelligenza necessaria né per decidere rapidamente né lentamente e che le sue decisioni erano il più delle volte il frutto di simpatie e antipatie uterine oppure di legami sociali. Chi doveva trattare con lei ne rimaneva rapidamente disgustato ed evitava di incontrarla.

Rapidamente iniziò il declino; a quello fisico, già perfetto in gioventù, si aggiunse quello psichico; nonostante la sua presunzione non potè fare a meno di accorgersi che era ritenuta incapace di svolgere il suo lavoro, che i colleghi schifavano la sua formale cortesia così tangibilmente falsa, che la gente rideva alle sue spalle, che i pochi complimenti che riceveva erano interessati o, peggio ancora, una presa in giro. Iniziò a giungere di corsa, all’ultimo momento, prima dell’inizio del lavoro, ed a rintanarsi ratta nel suo ufficio o nel bagno, chiusa ad ogni rapporto umano; mai fu vista essere invitata da qualcuno né lei, per atavica spilorceria, ebbe mai ad offrire qualche cosa ad altri. I giornali non parlarono più di lei e non pubblicarono più le foto ritoccate che la ritraevano com’era trent’anni prima, in posa da madre badessa dominatrice, ultimo spavaldo e degenerato frutto di una stirpe di nobili bottegai, ascesi faticosamente fino alla classe dei pidocchi infarinati.

Anche la sua fine fu delle più bizzarre. Le era stato inviato a casa, in omaggio, un divano di cuoio rosso, uno di quei divani che con un rapido movimento si trasformano in un letto. Charline si trovava da sola in casa e decise di provarne la morbidezza, forse speranzosa che il marito venisse nuovamente attratto, se non da lei, almeno dal mobile; lo allungò e si stese su di esso, per traverso. Ma il divano, o per difetto o per errata apertura, si richiuse inghiottendola, così sottile e insignificante com’era, nel suo interno; il meccanismo la imprigionò e soffocò come in una trappola, impedendole di muoversi e persino di lamentarsi. Qualche ora più tardi rientrarono in casa il marito e la serva, una donna di colore di mezza età che viveva con loro, Trovandosi soli, il marito di Charline sentì nascere in lui un’attrazione, un turbamento di sensi, per le forme rotonde di quella donna selvatica, per quelle prominenze per lui così inusitate, per quell’afrore esotico, che l’afferrò, la rovesciò sul nuovo divano, senza incontrare molta resistenza, e la possedette furiosamente. II loro peso e i movimenti convulsi sul divano diedero però il colpo di grazia a Charline e il suo ultimo respiro si mescolò ai gemiti di piacere degli amanti.

Il suo corpo venne ritrovato due giorni dopo, quando l’odore della natura soverchiò il profumo che ella usava in abbondanza.

Questa fu la sua fine; ma qualcuno giura aver visto talvolta aggirarsi di notte, per le sue antiche stanze, l’ombra di uno scheletrino, avvolto nell’ombra di una pelliccia, con l’ombra dei femori che facevano da tonda cornice alla luna piena, occhieggiante attraverso la finestra».

Il viaggiatore tacque e seguì con lo sguardo la cittadina che scompariva in lontananza. Il suo compagno di viaggio accese lentamente un sigaro, assaporandone le prime boccate di fumo, e poi mormorò, più tra sé e sé che all’altro: «Avevo capito subito che era entro il divano».


Novella della serie Le morti bizzarre di Jean Richepin (1849-1926). Pubblicata nel Le Journal Littéraire, XII, 127, Parigi 1912. Trad. Lidia Nessi.

  1. Gioco di parole intraducibile fra i significati di “fighetta” e “figa-inetta” (NMJ). 

Links

Per chi volesse saperne di più su Jean Richepin.

  1. Les morts bizarres in formato .PDF su Gallica, bibliothèque numérique de la Bibliothèque nationale de France
  2. Sito dedicato a Jean Richepin

P.S.: della versione originale ho cercato di riproporre il più fedelmente possibile anche l’impaginazione, lasciando titoli e note a piè di pagina.