Trasmissione a reti unificate. Reloaded

Feltri sa cosa ho fatto l’estate scorsa…

Flusso di pensieri (addormentati) sullo speciale di Porta a Porta

Bando alla modestia. Visto che non me lo dice nessuno, è tempo che lo rimarchi io: sono – e di gran lunga – il miglior blogger che il mio condominio abbia conosciuto. Almeno fino all’arrivo di Leopold Ezechiel III, l’alano del vicino, cui invidio il nitore della prosa (1). L’invero scarsa diffusione della banda larga ai tempi dell’Impero Austriaco rende poi non del tutto peregrino far risalire l’inizio della mia supremazia a ben oltre la fatidica soglia dei 150 anni, quella che contrassegna il destino dei veri Grandi.

Applausi registràti.

Messi doverosamente i puntini sulle i, non mi sfugge però come, oltre a recarmi onori, il summenzionato primato mi gravi anche di non minime responsabilità, che non mi consentono di limitarmi a pubblicare il nuovo monoscopio RAI senza rilasciare una pur stringata dichiarazione, come ho imperdonabilmente fatto ieri. Avendo già astutamente provveduto a fare self-outing, non ho poi nulla da temere da un possibile tentativo di character assassination da parte di una nota redazione milanese (da cui il sottotitolo del post): quel che se ne conclude è che non c’è motivo perché io mi astenga dal vergare qualche noticina in calce all’Evento.

Parlo ovviamente del discusso speciale di Porta a Porta di ieri sera, la cui importanza, in barba al clamore e alle polemiche della vigilia, sembra ai più essere sfuggita. Almeno a giudicare dall’audience del 13.47%, che – spettatore più, spettatore meno – corrisponde alla metà scarsa di quella della quarantottesima replica di un qualsiasi episodio de Il commissario Montalbano, o a poco più di quella di Celebrity Bisturi con la Gregoraci o di un make-up tutorial di Malgioglio.

Io, eroicamente, l’ho guardato: sappiate apprezzare lo spirito di servizio con cui ho bevuto l’amaro calice, per poter riportare le mie modeste impressioni a beneficio di chi di voi se lo fosse perso, complici quei trinariciuti dell’UEFA, ostinati nel non voler rimandare le concomitanti partite di Champions League.

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Mi profondo in scuse per il preambolo, lungo quasi come la televendita che ha aperto la trasmissione, in cui un Giorgio Mastrota quasi irriconoscibile (classe 1964? 45 anni davvero mal portati) cercava disperatamente di piazzare al Vespa un campionario di casette, box auto, pentole Mondial Casa, detersivi e mobili di “dessaign” col “piano cottura antisdrucciolo” (senza il quale, come ben sa chiunque abbia cucinato almeno un uovo sodo, si corre il serio rischio di finire faccia sui fornelli e infortunarsi gravemente. Una beffa indigeribile, per chi è scampato al terremoto). Imbarazzante: c’è da augurarsi che un pronto ricorso agli strumenti della legge Bacchelli possa garantire al Mastrota una vecchiaia un po’ più dignitosa.

Terminata la fluviale telepromozione, ecco finalmente il momento da tutti atteso. Del quale – a dire il vero – non molto riesco a ricordare: complici una certa fissità della messa in scena, che ricordava vagamente quella di Empire di Andy Warhol, e la bottiglia di rosso che era assolutamente necessario si scolasse, il vostro pur volenteroso Gambero non ha infatti tardato ad addormentarsi – pur non senza aver provato a carpire almeno qualche immagine, qualche impressione che giustificasse l’aver deciso di passare la serata in quel modo.

Cosa rimane del mio dormiveglia?

Provo a strappare qualche vago ricordo all’oblio, destino comune a tutti i miei sogni che non vedano Mara Maionchi come protagonista.

Nel bel mezzo di una scenografia che – forse perché anch’essa dotata di nano – mi ricordava quella di certe visioni di Twin Peaks, […]

[…] si poteva vedere un omino piuttosto anziano (anch’egli somigliante a Mastrota), seduto su di una poltroncina. Bianca. In testa, una chiazza di bitume. Davanti a lui, tre cactus – che, curiosamente, sembravano talvolta dar l’impressione di volersi esprimere – e uno schermo con l’immagine di un’altra pianta grassa, il Sansonetthium. Anch’essa, a tratti, all’apparenza balbettante. Da segnalare come, di tanto in tanto, inspiegabilmente, il conduttore si rivolgesse ai cactus, chiedendo loro di porre delle domande all’omino. Assai meno stupiva che, forse ben consci di essere pur sempre delle piante ornamentali, i cactus si guardassero bene dall’assecondare quella bizzarra richiesta.

L’avessero mai fatto, sarebbero poi state inesorabilmente sommerse dal torrenziale eloquio dell’anziano, solo in apparenza in debito d’ossigeno. Chi era e, soprattutto, perché si trovava lì? Delle sue parole non credo tenga dar conto: chi sostiene di conoscerlo assicura fossero le stesse che va monomaniacalmente ripetendo da una buona quindicina d’anni, pur nella rarefazione delle occasioni in cui gli riesce di sottrarsi a una diabolica censura ai suoi danni. Di nuovo, sempre secondo i ben informati, la tendenza a un uso sempre più compulsivo dell’affricata postalveolare sonora G, seguita da varie cifre, che casuali o frutto di qualche numerologia massonica dire non saprei: G8, G20, 24, 27, 81, 666. Pare che queste oscure sigle stiano a indicare degli incontri internazionali, la cui utilità rimane ignota fuorché all’omino stesso, che del suo avervi presenziato mena gran vanto, e che suole omaggiarne i partecipanti con costosi presenti, sul cui gusto i maligni amano ventilar dubbî.

Malgrado il pensiero di bermi l’ultimo bicchiere per poi andarmene a letto ricorresse sempre più di frequente, qualcosa di ipnotico mi teneva incollato al divano. Ricordo distintamente come la sensazione si facesse sempre meno piacevole. Anche lo studio sembrava essere caduto in preda a un vivo disagio, che mi sembrava dovuto a un tacito obbligo di mantenere un atteggiamento deferente nei confronti del vecchietto, che a sua volta sembrava aver smarrito il già raro, teso sorriso. Si torceva, in preda a un malcelato nervosismo: dava l’impressione che una medicina per lui indispensabile stesse cessando di fare effetto, e che temesse di ritrovarsi nudo, senza difese, sprofondato in quella poltroncina a balbettar corbellerie tra l’imbarazzo degli astanti.

Quel che più d’ogni altra cosa era riuscito a penetrare la barriera delle mie sonnecchianti palpebre era proprio quella torva espressione dell’omino, tra il mesto e l’incollerito. A dirla tutta, in barba all’evidente stanchezza, quell’uomo sembrava davvero incazzato come una vipera, pieno di tic; a dissolvere la mia inquetudine, via via sempre più viva, è però bastato il provvidenziale pensiero che, malgrado la sua presenza in TV, quell’omino non fosse in grado di nuocere, che non potesse certo ricoprire incarichi di rilievo e responsabilità. Mi sono poi andato convincendo che la ragione di tanto livore fosse da ricercare nell’inadeguatezza della sua pensione, e che in quella cartella che compulsava nervosamente non potesse che custodire la documentazione per l’INPS, che in tutta evidenza riteneva di poter sollecitare sbraitando “farabbutti” e altre contumelie. Manco fosse Antonello Trombadori.

«Beh, tanti auguri. Speriamo che qualcuno prenda a cuore il suo caso. Ma perché stasera non c’è Mara Maionchi?»

Piuttosto distintamente ricordo ancora come dall’occhio destro dell’attempato omino, visibilmente più chiuso dell’altro, mi fosse a un tratto parso di veder far capolino il brillio di una lacrima, che solo in seguito ho realizzato essere una goccia di cortisone.

Che brutta questa televisione che non ha più rispetto per gli anziani.

Di più non mi sovviene, se non una voce, l’unica dolce della serata.

«Andiamo a dormire, Amore?»

«Non chiedo di meglio, Dolcezza. Dopotutto, domani è un altro giorno.»

Note:

  1. Non ne ho mai capito il perché, ma pare che gli alani scrivano da Dio.