Coming out per il Gambero Rotto

Ovvero: cosa non si fa per trombare

Scopro colpevolmente solo ora come l’anglicismo outing non stia affatto a significare la libera rivelazione della propria omosessualità o – per esteso – di qualcosa che ossequio alle convenzioni sociali e personale convenienza preferirebbero rimanesse nascosto. Indica piuttosto – cito Wikipedia  – la pratica di rendere deliberatamente pubblica e senza consenso l'identità sessuale o l'orientamento di altri, usata come vero e proprio strumento di lotta politica dal movimento omosessuale statunitense, per sputtanare politici e intellettuali conservatori particolarmente attivi e fanatici nella deprecazione e addirittura nella persecuzione pubblica dell’omosessualità, spesso per nascondere la propria.

Colmata questa lacuna, mi sovviene che un programma politico–elettorale ce l’ho anch’io; è così che mi ritrovo a temere che questa pratica possa proditoriamente essere usata anche contro di me, che pur conservatore non sono e che d’essere omosessuale onorarmi non posso.

Ora di contrattaccare, per meglio difendermi: eccomi pertanto a fare coming out (o self-outing) e a rivelare tutto l’inconfessabile, a svuotare di ossa gli armadi, spuntando così le armi a chi – rivelando i più scabrosi retroscena della mia vita sessuale – pensasse di screditarmi per impedirmi la presa del Palazzo d’Inverno.

Confesso: quand’ero più giovane, pur di ingraziarmi la bella di turno, non ho mai esitato a raccontare un sacco di balle. Pur di rendermi più interessante e convincerla a concedermisi, ero infatti disposto alle più vili menzogne e alle più sordide imposture, forte della più bronzea delle facce e della più tenace e accanita logorrea.

Era infatti mia non del tutto errata convinzione che – quand’anche non fossi creduto fino in fondo e sugli specchi ad arrampicare mi trovassi – la stella diana oggetto delle mie brame non sarebbe rimasta insensibile a tutti gli sforzi, anche d’immaginazione, che profondevo per conquistarla. Lusingata o presa per sfinimento che fosse, non mi avrebbe alfine negato le sue grazie.

Bando alle ciance; tempo di smascherare le mie antiche menzogne.

Con l’occasione, oltre a liberarmi del peso di otto piccole parti che non voglio esser chiamato oltre a recitare, rimedio a due critiche che mi sono state mosse: quella di non pubblicare nulla di anche solo vagamente autobiografico, e quella di non parlare mai neppur velatamente di sesso.

 

Le confessioni del Gambero

Otto millanterie ed espedienti di un (ex) giovane di sinistra.

  1. Il Finnegans Wake e io

    Vent’anni di umilianti tentativi non mi sono bastati ad arrivare a metà del primo libro. È successo a tanti, non dovrei darmene poi troppa pena. Non fosse che – cercando di far colpo in una serata ad alto tasso alcolico – riuscii anni fa a sciorinare un agghiacciante «riverrun, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay», con l’aria di chi la sapeva lunga. Riuscendo financo a dare a bere che non solo l’avevo letto per intero, ma che anzi me ne pascevo quotidianamente, tanto da averne addirittura sviluppato una certa qual forma di dipendenza. Amaramente pentito, sparso di cenere il capo, posso solo invitare le gentili lettrici a diffidare di chiunque tanto pretenziose letture così sordidamente millanti. E, soprattutto, a non dargliela.

  2. Il realismo magico sudamericano, che passione!

    Mai sopportato. García Márquez, Isabel Allende? Perché non una biopsia ai testicoli? Fingersene appassionati era però indispensabile, se si teneva a una vita sessuale decorosa. Almeno in certi ambienti di sinistra, borghesucci anzichenò, in cui il maledetto RMS sembrava essere l’unica forma di letteratura praticata, e in cui l’argomento di conversazione principe erano i cazzacci – in tutto intercambiabili – delle famiglie Buendía, Trueba e Forrester. Chi era impreparato non trombava mai: fu così che bevvi anch’io l’amaro calice, leggendo il minimo indispensabile di RMS, tenendomi quanto bastava informato sugli incesti di “mascellone” Ridge.

  3. Doris Lessing? Non leggerei altro!

    Vedi alla voce “realismo magico sudamericano”. Con l’aggravante che, quasi sempre intonsi, i tomi della Lessing ancora se ne stanno in bella mostra su uno scaffale di casa, invece di aver preso la strada del mercatino delle pulci. Con l’ulteriore aggravante dei letali «nella misura in cui… la donna si fa significante e significato… finalmente libera dalle sovrastrutture…» con cui usavo intortare certe mie interlocutrici “lessinghiste”. “Sovrastrutture” che andavano intese – nel migliore dei casi – di pizzo e della quarta misura.

  4. Come fai a sapere che Giorgio Gaber è il mio idolo?

    Mai piaciuto, posso ora confessare. Avrei però mai potuto contravvenire alla regola che consentiva sì di parlarne male, ma solo se al contempo si mostrava il più cocente rimpianto per il grande Gaber di una volta? Avrebbe significato l’emarginazione sociale (e il conseguente crollo di ogni chance di trombare) in una fase assai delicata della mia formazione.

  5. Francesco De Gregori? Lui sì che sa come emozionarmi

    Vedi alla voce “Giorgio Gaber”. Con l’aggravante che, di tanto in tanto, facendomi la barba, mi ritrovo ancora a cantare “Pezzi di vetro”. Con l’ulteriore aggravante che, con De Gregori in sottofondo, dopo aver parlato di De Gregori, con chi tanto amava De Gregori, dopo un concerto di De Gregori, non s’è trombato mai. Soporifero.

  6. «Qualcosa contro i peli sotto le ascelle?» No, anzi…

    Manolo Blahnik, Christian Louboutin? Diciamo pure Dottor Scholl e Mr. Clark. Anche ai piedi delle più leggiadre tra le fanciulle che mi beavo di frequentare trionfavano infatti zoccoli ortopedici, polacchine impolverate e orrendi infradito indiani in cuoio. Non ebbi in verità mai troppo a crucciarmene, non avendo ancora scoperto quanto anche il maschio possa essere gratificato da una bella scarpa femminile. Né i gonnelloni da figlie dei fiori e i pantaloni etnici in garza mi causavano poi un disagio estetico che soverchiasse i vantaggi della loro agevole rimovibilità.

    Quel che mi disturbava era piuttosto la diffusa trascuratezza – quando non già ferrea obiezione – nel depilarsi le ascelle. Quella della depilazione era attività infatti assai malvista, un segno di resa a quella Moda con cui il capitalismo fallocrate distraeva la donna dal consapevole esercizio dei suoi diritti, per meglio schiavizzarla. La non granitica convinzione della bontà di questi argomenti rendeva però le mie irsute veneri assai bisognose di conferme: «Vero che così è più naturale?» «Non trovi che sia più sexy?» Quando una domanda già contiene la risposta, è sempre prudente, se non saggio, evitare di cercarne un’altra, e così feci.

    Reazioni piccate e conseguenti troppo lunghe astinenze temendo, mai m’arrischiai a dire la verità. Condannandomi così a estenuanti, penose bugie e – ogniqualvolta giungessi all’agognato traguardo – all’altrettanto estenuante ricerca di posizioni che minimizzassero l’impatto, talvolta non solo visivo, della “Selva Lacandona”.

  7. Il mio “trionfale” passato agonistico sugli sci

    Non è un’invenzione, ho effettivamente gareggiato, pur se a infimi livelli. È su quanto fossi scarso che ho spesso tutt’altro che disinteressatamente sorvolato. È il momento di ristabilire la verità: ero una vera pippa. La vergogna dello sci italiano. Mai sul podio, mai nei primi venti (se non quando i partecipanti erano di meno). Al cancelletto sembravo infatti entrare in un’altra dimensione, le cui strane leggi fisiche non prevedevano che vi fosse una forza centripeta a contrastare la centrifuga. Tant’è che, immancabilmente, partivo per la tangente e uscivo di pista. La vecchia tuta Colmar da gigante (la stessa di Tomba a Calgary!) è finita a persona meno indegna di indossarla; fatta finalmente ammenda, posso ora vivere con serenità la mia ritrovata passione per lo sci. Senza più sognarmi di millantare inesistenti glorie né tantomeno di farvi affidamento per trombare.

  8. La barca? Neanche regalata!

    Politicamente parlando, è ben noto come io sia rimasto ai Soviet e ai piani quinquennali, pur senza più propugnare l’eliminazione dei kulaki, un tempo con tanta passione sostenuta.

    Durezza e purezza avevano del resto l’incontestabile pregio – perlomeno in certi ambienti – di facilitare il contatto sessuale: guai pertanto, in presenza della bella, a non ostentare il massimo disprezzo per la ricchezza, in ogni sua manifestazione, foss’anche discreta, e per i beni materiali in genere. Intollerabile ogni scarto dall’ortodossia pauperista, pur con alcune eccezioni: per fumo e ogni più nefasta troiata New Age non era infatti malvisto spendere vere e proprie vagonate di denaro; sommamente indelicato inoltre non mostrarsi comprensivi verso il vivo disagio che abitare le sibaritiche magioni dei genitori alle mie graziose “pioniere” cagionava.

    Oggi mi sento di poter invece liberamente affermare, senza più temere che un immeritato marchio di “riformista” (“migliorista”, si diceva allora) mi ostracizzi sessualmente, che le cose belle mi piacciono, e pure molto.

    Aggiungo, senza ipocrisia, che chi se le può permettere fa benissimo a comprarsele, purché non frodi il Fisco, non le ostenti e – non da ultimo – le sappia davvero apprezzare.

    È quindi senza complesso alcuno che aggiungo una postilla al mio slogan programmatico «Voglio il pane e le rose. E anche il foie gras»…

    Voglio pure un motoscafo Riva.

    Non mi limito a desiderarlo; sono anzi intimamente convinto di non meritare nulla di meno. Su un Aquarama del ’62 farei davvero la mia porca figura, ma anche un più moderno Aquariva Super o un Rivarama potrebbero rivelarsi adeguati alla bisogna. Sogno, insomma, di possederne uno, e di potermi finalmente godere anch’io la mia bella fetta di contraddizioni in seno al popolo: a presto l’apposita sottoscrizione.